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domenica 16 novembre 2014

Cattelan a Torino






Shit and Die. Non si è parlato d'altro negli ultimi giorni. La pregnanza del titolo è forse più significativa della mostra stessa, a cui spesso piace perdersi in un  can-can di oggettistica e lavori di vario tipo non di semplice collocazione all'interno di un disegno complessivo, che c'è, si vede e non si vede, a volte si interrompe ma conclude con un buon colpo "alla Cattelan", con tanto di sbeffeggio al Conte di Cavour. Basterebbe allora leggere il titolo e vedere le ultime due stanze della mostra per non perdere un granché d'altro se non vari ed eventuali riferimenti alla città ospitante. 


Il tutto, a sentire le voci più indiscrete, dovrebbe partire dalla presunta passione feticistica di Cavour, non per i piedi ma per i suoi stessi escrementi. L'atto di defecare diventa provocatoriamente la metafora dell'inconsistenza e della fuggevolezza del vivere e l'ansia di autoconservazione ci assale. 

"Qui non c'è alcuna opera d'arte ma si tratta di un allestimento dei curatori" sostiene la giovane guida nella stanza che era lo studio del primo grande statista della storia d'Italia. Forse è troppo inesperta per non credere che qui si trovi il vero guizzo dell'esposizione, la vera impronta di Cattelan, che guarda caso emerge molto più come artista che non come curatore. Tutto viene avvolto da cellofan trasparente, una mossa in bilico tra Christo e un imbianchino maldestro che allarga il concetto di feticismo al culto per gli oggetti, in particolare se appartenuti a qualche personaggio illustre, e perché no, ci fa pensare anche alla conservazione museale dell'oggetto d'arte, nella sua dimensione di opera-feticcio. Non potendoci auto-conservare preserviamo e sfidiamo il tempo con ciò che ci appartiene. Tra gli oggetti protetti dal cellofan le foto osé della cugina Contessa di Castiglione, una immagine di piedi in primo piano, e un ritratto ufficiale di Cavour. Nel capovolgimento di parti si genera il cortocircuito e si riconosce il colpo del saltimbanco, la sua zampata beffarda, nel gioco dei ruoli anche e soprattutto la sottigliezza dell'artista curatore che ironizza sul curatore artista. 

Nell'ultima sala il ticchettio dei metronomi di Martin Creed scandisce il countdown della fine mentre l'oggetto, un'auto (Florian Pugnaire, David Raffini, Expanded Crash, 2008), si comprime impercettibilmente e decade nel tempo, esattamente come l'uomo e la grande industria torinese di cui è evidentemente un richiamo simbolico. Il tema forte quanto banale dell'annullamento materiale, morte e cenere, viene inscenato su un percorso molteplicemente ispirato alle anime e ai demoni della città di Torino. Abbastanza scontata la forca del Museo di antropologia criminale così come il "ricorda che devi morire" dato agli illustri torinesi; poca sostanza rispetto al contesto la vista e rivista parte della denuncia femminista di Emin, Lucas e company. Della prima parte la cosa migliore sono i tappeti di Aldo Mondino che interrompono una mostra sino ad allora poco ispirata e moscia. Del resto anche il "polemicometro" ha registrato solo una piccola lamentela da parte di un consigliere comunale per un evento che difficilmente appaga le aspettative di un'ora di fila e che solo l'intrusione finale dell'artista salva dall'essere una cosetta alla "caga e muori". 

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